Un commento al film Everest
Il film Everest di Baltasar Komakur appartiene a quei film dove la montagna e l'alpinismo divengono protagonisti attraverso le sue tragedie. Assecondando negli spettatori la sensazione che l'alpinismo sia un qualcosa di strano, praticato da bizzarri personaggi che se la vanno in fondo a cercare. Una volta l'alpinismo era uno dei pochi sport cosiddetti estremi. Oggi sono proliferati ma questa attività mantiene comunque alto il fascino dell'avventura. Impossibile, quindi, per il cinema che fa dell'azione e delle immagini spettacolari uno dei suoi punti di forza per far presa sugli spettatori, non cimentarsi con esso. In più, nel caso di questo film, c'è l'aggancio con la realtà: la storia è vera, non inventata. Si basa sulla tragica vicenda di alcune spedizioni commerciali in Himalaya nel maggio del 1996, protagoniste di una catastrofica ascensione che costò la vita a ben 8 alpinisti. Tanto è vero che questo non è il primo film girato su questo fatto. Il primo era Aria sottile, tratto dal libro omonimo del giornalista e alpinista Krakauer, anche lui presente durante la sfortunata ascensione. Un film sicuramente più debole di questo. Tra i due film, un bel documentario invece: Storm over Everest di David Breashears del 2010. Da vedere, per due motivi: uno perchè è la cosa migliore di matrice cinematografica sulla vicenda e secondo perchè è utile per giudicare questo film. Infatti, appare evidente che il regista si è allontanato dalla ricostruzione di Krakauer, per sfruttare le informazioni contenute nel documentario con ampie interviste ai membri delle spedizioni. Così nel film si rivaluta giustamente la figura di Anatoli Boukreev il forte alpinista kazako che ridusse le dimensioni della tragedia salvando alcuni alpinisti da sicura morte. Inoltre si potrà apprezzare lo sforzo del regista nel ricostruire l'ambiente montano. E' ovvio che, a parte alcune panoramiche, era impossibile girare e recitare nelle condizioni dure dell'Everest. Nella ricostruzione, parte a Cinecittà e parte in Val Senales, è soprattutto apprezzabile come è stata resa la zona del cosiddetto Hillary step, cioè il passaggio chiave dell'ascensione dal colle sud (solo 14 m verticali) e che si trova poco sotto la vetta. Nella finzione sono perdonabili alcune imprecisioni (tipo marche di abbigliamento montano allora non esistenti) con altre precise come la ricostruzione dei cappelli di lana del team di Scott Fisher. Anche altri momenti che possono sembrare fatti apposta per commuovere lo spettatore sono in realtà avvenuti come la triste telefonata satellitare tra Rob Hall in fin di vita e la moglie.
Resta il fatto però che il film non riesce del tutto a stare in equilibrio tra la parte drammatica degli eventi e una riflessione sulle cause della tragedia che, seppure accentuata da una serie di concause climatiche sfavorevoli, ha un difetto d'origine: troppa gente in quella situazione e non sufficientemente allenata e preparata. Nel film si batte giustamente molto sul fatto che la tempestività nella salita e nella discesa sono fondamentali per la riuscita. Ma questa cozza proprio contro la pratica delle spedizioni commerciali sull'Everest. Ovvero clienti che pagano talmente tanto per arrivare in cima che si violano spesso le elementari regole di sicurezza che, va detto, sugli ottomila himalaiani diventano ulteriormente necessarie. In un certo senso il film finisce dove il problema inizia. Perchè le spedizioni commerciali hanno cambiato definitivamente il volto della salita all'Everest ed altre cime himalaiane. Tanto che fior di alpinisti professionisti (gente che sale senza ossigeno) si trovano spesso imbottigliati in mezzo a processioni di persone che si trascinano verso la vetta, come è accaduto al nostro Simone Moro. Insomma, film da vedere ma tenendo bene a mente queste premesse. Le quali rendono la conquista fatta a tutti i costi di una vetta, una vera e propria allegoria dei nostri tempi. Non dimenticatelo se andate a vederlo.
Il trailer ufficiale del film: