Il film di Alain Resnais gli amori folli (les herbes folles)

 

Alain Resnais è  un regista francese che ha sempre fatto  film di una leggerezza e nello stesso tempo di una pesantezza enormi. In questo poi è necessaria molta maturità.

Cominciamo però dal titolo. Questa cosa di stravolgere i titoli originali la trovo spesso fuorviante. Nel caso specifico non è solo forma: è sostanza. Il titolo originale è: l'herbes folles ed infatti esse sono protagoniste in più inquadrature del film. Andare a vederlo senza sapere il titolo originale fa perdere metà comprensione ad un film già difficile di suo. Sono le erbe invasive, quelle gramigne che, a dispetto di tutto, crescono modificando parzialmente un paesaggio che altrimenti sarebbe diverso. In particolare, quelle erbe che spaccano il grigiore dell'asfalto e crescono nelle crepe dello stesso. L'imprevedibilità, insomma. Se l'obiettivo è andare oltre gli elementi stabili della realtà, in questo senso Resnais ha fatto un film metafisico.

La trama è minimalista. Fatti quotidiani, seppure alcuni personaggi hanno comportamenti bizzarri. E' una di quelle trame sciocche che hanno bisogno di talento per essere portate avanti. Qui apriamo allora la parentesi tecnica. Il maestro usa la cinepresa con maestria, non disdegna la steadycam ma trionfano i primissimi piani. Ritmo e recitazione quanto basta per uscire dall'anonimato di molti film attuali. Non mi stanco mai di soffermarmi sul ritmo. E' essenziale in musica ma anche nell'arte visiva (teatro e cinema in primis). Per ritmo non s'intende per forza velocità d'esecuzione ma mantenere costante per tutta la rappresentazione quel metronomo interno che crea l'atmosfera di contorno al tutto.

Dopo la digressione torniamo al film. Oltre la tecnica già citata, Resnais manipola abilmente le scene, con quel gusto un po' francese per l'autoironia come nello spezzone dell'incontro tra i due protagonisti negli uffici dell'aeroporto, con contorno di musica hollywoodiana e parola 'fine' in sovrimpressione. Ed ecco la ciliegina sulla torta: il finale. Resnais è qui sensibile ai finali aperti  a più interpretazioni, tanto che ormai potremmo fare la storia del cinema basandoci sulle categorie dei film con finali classici (non solo happy end) e quelli criptici dove lo spettatore deve sforzare le meningi. Cito a caso tra i celebri ambigui finali 'Questo non è un paese per vecchi' dei fratelli Cohen o per andare più indietro nel tempo 'Blue Velvet' di David Lynch o fate voi perchè ce ne sono parecchi. Anche qui il finale è tra il grottesco e il filosofico. Non a caso è l'argomento di discussione all'accensione delle luci in sala.

Io un'idea ce l'avrei. La carrellata finale mi sembra alquanto evidente: passa dal cimitero ad un'inquietante paesaggio fra rocce scure per poi passare su visioni d'erba e terminare sul letto di una bambina che si sveglia e dice alla mamma vicino: 'quando sarò un gatto....”

Basta così: mi pare evidente un richiamo non tanto vago ai concetti degli stati del karma e trasmigrazione d'orientale memoria. Appunto per questo mi piace riportare quanto detto nel “cammino della purezza”: in nessun luogo sono qualcosa per qualcuno o qualcuno è qualcosa per me. Mi pare un bella frase per sintetizzare il senso del film.

Un'ultima annotazione lasciatemela fare alla pregevole colonna sonora di Mark Snow con un pezzo jazz bellissimo, che potete ascoltare: “jazz for dinner”.

 

Il trailer: