Una recensione all'albero della vita (Tree of life) di Malick

 

Cinque film in 38 anni. Basterebbe questo curriculum come regista per capire con quale personaggio stiamo facendo i conti. Aggiungiamo che nella vita Terrence Malick ha fatto sia l'operaio che il professore di filosofia al MIT di Boston per chiudere una biografia condita dalla caratteristica, tipica dei personaggi eccentrici, di non apparire quasi mai in pubblico in questo simile al mitico scrittore contemporaneo americano Pynchon. Ogni suo film è considerato un evento se non un vero e proprio capolavoro. L'unico che ha subito critiche è stato The new world, il precedente a questo recensito che è uscito nel 2005. Comunque, come tutti gli artisti bizzarri, può suscitare pareri contrastanti e discordanti. Questo film in particolare è veramente un tentativo più dei precedenti di trattare gli argomenti a lui più cari (Natura, senso della vita). E' un film dove usa in pieno gli ingredienti tipici del suo uso della macchina da presa. Tali ingredienti sono volutamente forzati rispetto ai canoni classici della tecnica cinematografica. Come l'uso massiccio della voce fuori campo (in genere considerata un'espediente da usare invece con parsimonia), l'uso della macchina da presa che si muove liberamente ma sempre nei canoni classici dell'inquadratura, senza camera a mano. Niente luci artificiali nè in interni nè in esterni  con una certosina e maniacale scelta delle luci più forti (in genere al tramonto o all'alba), espediente che gli permette di far risaltare soprattutto le scene con ambienti naturali. Trame volutamente esili e centrate solo su un fatto o una situazione come motore di sviluppo per una lunga e approfondita riflessione tesa a coinvolgere intellettualmente più che emotivamente lo spettatore. Montaggi  faticosi e con tempi lunghissimi, quasi catartici, dove quello che è stato filmato viene rivisto e spesso stravolto. A tal proposito si è parlato di alcune incomprensioni con Sean Penn per alcune scene tagliate. Una prassi per Malick se pensiamo che, in precedenti film, intere parti recitate anche da attori famosi sono letteralmente scomparse nella stesura finale!  
Praticamente ogni suo film è da prendere come un'esperienza ai limiti del misticismo, inutile andare a vedere un suo film con lo spirito di passare una serata non dico divertente ma tanto per fare qualcosa. Se così, meglio rinunciare. Non a caso molti considerano i suoi film come la prova più evidente che il cinema può assurgere alla qualifica di arte allo stato puro, dove per arte qui intendiamo, riecheggiando Marcuse, una dimensione totalmente diversa della realtà.  
Inutile, quindi tentare di descrivere il film, la sua trama. L'ineffabilità appartiene in pieno ai film di Malick che vanno visti e basta, poi magari commentati ma solo visti e possibilmente più volte. Non a caso, appena uscito dalla sala, il mio più grande desiderio è stato di rivedere il suo The thin red line (La sottile linea rossa - 1998), uno dei pochi film di tutti i tempi a punteggio pieno, vedi le 5 stellette del Morandini.
Se è difficile descriverlo, meglio dare conto di una chiave di lettura, ovviamente personale ma utile per far discutere o invogliare a vedere chi non l'ha ancora visto. Naturalmente e direi purtroppo, il successo a Cannes 2011 fa recare al cinema molta più gente di quella in grado di sopportare un film di Malick. Quindi, come mi è capitato, è possibile vedere gente alzarsi e andar via dopo 30 minuti del film; una scena abbastanza insolita nelle sale cinematografiche. Spettatore avvisato, allora.
Direi che Malick in questo film ha tentato una vera e propria summa del pensiero e delle problematiche proprie dell'uomo universalmente inteso. Certamente la sua precedente attività di professore di filosofia pesa in questo e non poco. Comunque meglio uno che di filosofia mastica e la inserisce volutamente in un'opera d'arte che altri artisti che rimasticano filosofia nelle loro opere senza averla adeguatamente frequentata, questa è almeno la mia opinione. Tanto per fare paragoni: del film di Resnais Amori folli (2009) ho scritto che è un film metafisico. Questo di Malick lo è ancor di più ed è forse il film metafisico per eccellenza. Attenzione, però. Questa operazione di travaso tra filosofia e cinema è sempre accompagnata da una personale ma efficacissima tecnica dello strumento per esprimersi (in questo caso la macchina da presa) ed anche uno spettatore sprovveduto se ne accorge.  
Tornando a noi, perchè summa? Perchè il suo film, attraverso un'attenta lettura dei particolari (fondamentali nel modo di girare di Malick) ci fa vedere inquadrature e svolgimento della trama che rispecchiano semplicemente ma brutalmente il nostro mondo, quello che viviamo là, appena fuori dalla sala cinematogafica. Per cui, uscendo dal film avremo la sensazione di guardarci intorno e d'incontrare fatti e persone come se stessimo ancora nel film, osservandoli ovviamente in modo diverso, meno di sfuggita. Questa è forse la sensazione massima che un'opera d'arte ci può far vivere, come diceva Gombrich (a proposito delle arti visive, guarda caso). Cioè vedere l'opera d'arte non come se fosse la realtà ma la realtà come se fosse un'opera d'arte.
In più, Malick riesce abilmente a storicizzare questo discorso e, pur riferendosi ai problemi ultimi dell'uomo, li tratta nell'angolazione di come sono oggi vissuti, sintetizzandone tutte le problematiche attuali. Infine, last but not least, Malick riesce pure nell'intento di autocitare nel film la stessa arte cinematografica da lui praticata. Malick, insomma, acchiappa non due ma tre piccioni con una fava, un vero e proprio colpo grosso non facile da raggiungere.
Un esempio? Se tenete a mente il discorso precedente, dopo il film il prossimo paesaggio lo guarderete con un occhio diverso, come un'inquadratura nei suoi film. Ma, nello stesso tempo, la Natura è nel film soprattutto la Natura così come è possibile conoscerla da parte di noi uomini del XXI secolo. Quindi, non a caso Malick, oltre alla normale Natura che tutti vediamo, ha abbondato nel suo film di scene di una Natura che sembrano fantastiche e quasi irreali. Mi riferisco alla prima mezz'ora che se ne va praticamente in una serie di visioni di pianeti, galassie e soli che esplodono e girano nell'Universo. Malick usa queste scene per dirci che sembrano fantastiche ma non lo sono affatto: sono esattamente i colori dell'Universo come noi oggi possiamo vederli grazie ai potenti mezzi tecnologici a disposizione e sono immagini maestose che fanno impallidire i migliori effetti speciali, direi quadri allo stato puro e Malick ce li ripropone affinchè noi possiamo riflettere. Se non ci credete, cliccate QUI ad esempio e vi trasferirete molte delle immagini "alla Malick" sul vostro schermo del computer! Ma, e qui sta la capacità di sintesi e lettura a più piani, non è possibile assistere a queste immagini che scorrono sullo schermo senza pensare a 2001 Odissea nello spazio e a Kubrick. Citazioni nelle citazioni, andiamo alla scena del dinosauro, emblematica e inquietante perchè di colpo introduce il concetto del rispetto e pietà verso la sofferenza (non è cosa da poco dal punto di vista morale) mentre viene letteralmente intrecciata in un chiarissimo rimando filmico di Jurassic Park di Spielberg.  
Ripeto, uscendo dalla sala vedremo le persone che attraversano la strada, parlano intorno a noi e s'agitano come se fossero i personaggi del film di Malick. Ma i personaggi sono assolutamente calati nel novecento, tanto che è evidente l'allusione al complesso edipico dei ragazzi protagonisti. Un riferimento forte all'importanza, comunque la si voglia pensare, della psicoanalisi che ha introdotto in modo dirompente la scoperta del lato oscuro in ognuno di noi. Lavorano naturalmente questi personaggi e la figura del padre (Brad Pitt) è emblematica delle ansie e delle insofferenze determinate dal lavoro e dalla mobilità sociale nelle nostre società, dove è forte il desiderio dei padri di avere figli che riescano in quello che a loro non è riuscito. Così il figlio (Sean Penn) è chiaramente descritto come un arrivato diversamente dal padre frustato ma senza che questo innalzarsi nella scala sociale conti un granchè ai fini delle domande interiori. Non solo, Malick abilmente descrive il passaggio essenziale, dal punto di vista storico-economico, che si è avuto dal novecento ad oggi. Non a caso, il padre lavora nella grande industria (probabilmente siderurgica) dove ciminiere, elmetti di lavoro in testa e grandi impianti sono la regola, mentre il figlio è catapultato in asettici ascensori che salgono su interminabili grattacieli di una qualunque city finanziaria del mondo dove i simboli  sono invece gli eleganti doppipetti scuri, le sale di riunione con i mobili in mogano e quant'altro.  
Voi direte che tutto questo non sembra poi una grande trovata e che al limite anche voi potreste pensare o fare queste associazioni. Certamente a pensarle, specialmente dopo averle viste, sembra facile. Paiono così banali. Però non è così e provarle a metterle dentro un contenitore d'immagini come un film, renderle una storia e addirittura una severa pausa di riflessione sui grandi temi è più difficile di quanto uno possa immaginare. Riconosco che Malick possa forse aver immaginato troppo ma il solo fatto, proprio in questo mondo da lui descritto, d'immaginare e anche pensare depone assolutamente a suo favore, in tutti i sensi.   
Il consiglio finale è, quindi, di vivere il film, non di vederlo soltanto. Stare attenti ai minimi particolari, concentrati al massimo per quelle due ore e mezza e non a pensare invece alla pizza dopo il cinema, questa la sola raccomandazione...

Il Trailer:

Una simpatica critica di uno spettatore: 

 

Ed infine una notizia che manda i detrattori del film in giuggiole....